“Io sono quello che gli inglesi chiamano un underdog”. Così, con questa parola si è definita Giorgia Meloni nelle dichiarazioni programmatiche rese ieri alla Camera dei deputati. E già sorprende che una donna che dell’italianità ha fatto il suo marchio identitario sia ricorsa a una espressione idiomatica inglese che non ha un corrispettivo italiano. La traduzione letterale di underdog – “il cane che finisce sotto”- non significa niente e per essere intesa deve essere elaborata a partire dal contesto in cui è nata che è quello dello sport e in particolare della corsa o anche della lotta tra cani cui assiste un pubblico di scommettitori. In quel contesto l’underdog è il cane sfavorito, quello destinato a perdere, a finir sotto. Traslato dallo sport alla vita l’underdog è colui o colei non favorito dalla lotteria della fortuna, quello con più handicap o svantaggi di partenza.
E’ il caso di chi nasce in una famiglia povera o impoverita dall’abbandono del padre. Il padre di Giorgia, di simpatie comuniste, abbandonate moglie e figlie (Giorgia aveva un anno), andò a vivere alle Canarie dove si risposò e ebbe altri quattro figli. In seguito verrà condannato a nove anni di carcere per traffico di droga. Con la madre e la sorella Giorgia si trasferisce nel bel quartiere popolare della Garbatella dove si fronteggiano ormai senza violenze le sezioni di partito, la socialista, la missina, la comunista. Con questa anamnesi famigliare non stupisce che la piccola Giorgia si orienti a destra, la destra post fascista, la destra dei vinti, degli esclusi, dei marginali, degli underdog appunto.
Nel ’92 ,a quindici anni, quando crolla la prima repubblica Meloni è già un’attivista, a diciannove responsabile nazionale di Azione Studentesca, a ventiquattro Gianfranco Fini la nomina coordinatrice di Azione Giovani ed è eletta consigliera della provincia di Roma. A ventinove anni diventa deputata e vice presidente della Camera, poi, a trentuno, ministra della gioventù nel governo Berlusconi, infine a trentasei anni è eletta leader di Fratelli d’Italia. Fermiamoci un momento. Una carriera così folgorante tutto sembra giustificare salvo che definirsi underdog, cioè perdente, sfavorita, vittima di un qualche handicap.
Anche il contesto politico e la destra non sono più quelli del MSI di Almirante, dei “fascisti carogne tornate nelle fogne” e dei nostalgici revanscisti per nascita, per destino, per scelta. La crescita politica e la brillante carriera della futura prima ministra italiana si sviluppano dopo e dentro Alleanza Nazionale, dentro la nuova destra di Gianfranco Fini e della svolta di Fiuggi, delle leggi razziali definite come “il male assoluto” e già dentro la scelta atlantica ed europea.
Lungi dal contestare – come ha fatto per anni – l’Unione Europea in nome del sovranismo nazionale, ieri Meloni ha lamentato i ritardi nella costruzione e nell’integrazione delle economie dei singoli stati proprio sul terreno dell’energia, cioè sul terreno su cui settant’anni fa è nata la nostra Europa. C’è di più: questa Europa fino a ieri giudicata matrigna e alla quale, dall’opposizione, Meloni ha sistematicamente votato contro contrapponendole un’immaginaria “Europa dei popoli” nel discorso di ieri alla Camera è diventata “la casa comune dei popoli europei”. Ebbene, una svolta così radicale o viene motivata e argomentata (magari anche con qualche cenno autocritico) o non può non suscitare un dubbio di improvvisazione se non di opportunismo.
Allo stesso modo la dichiarazione di fede nella democrazia liberale così chiara e risoluta nel discorso di ieri dovrebbe trovare corrispondenza nella critica a chi la contesta e la nega come continua a fare con atti e con parole il leader ungherese Orban a favore del quale invece continuano a votare i rappresentanti di Fratelli d’Italia nel Parlamento Europeo. In attesa degli atti di governo, di fronte a tante contraddizioni e incongruenze tra una Meloni e l’altra per ora accontentiamoci di definirla una underdog di successo, una contraddizione in termini.