Primo Maggio dell’Avanti!: un anno di vita nel 125° della fondazione.
La ricorrenza della Festa del lavoro è anche il primo anniversario del rinato Avanti! Un anno di vita, un anno di lavoro militanti a mani nude: lavoro culturale, editoriale, associativo per ritessere i fili spezzati di una storia e di una comunità per aprirla e arricchirla di energie nuove di punti di vista diversi.
Ammaestrati da Pietro Nenni e dalla sua “politique d’abord”, la politica anzitutto, abbiamo cominciato immergendoci nell’attualità. Volendo intervenire sul dramma della pandemia e vedendo il disordine istituzionale tra Stato e Regioni abbiamo individuato nel Consiglio Supremo di difesa e di sicurezza presieduto dal Capo dello Stato il livello costituzionale più adeguato a fronteggiare l’emergenza.
Abbiamo sollecitato la sua riunione e abbiamo indicato nell’esercito l’unica struttura pubblica dotata dei mezzi, delle competenze, delle esperienze logistiche necessarie. Per senso di responsabilità e non per gusto polemico abbiamo suonato l’allarme sull’impreparazione di Conte, del suo governo e sugli errori che venivano compiendo prima negando l’emergenza poi opponendosi a uno sforzo unitario di tutte le forze politiche mentre, inspiegabilmente, affidavano compiti immani e delicatissimi a un’unica persona oltretutto sprovvista di autorità e competenza (Arcuri).
Da subito abbiamo denunciato il disastro della sanità lombarda, il cinismo verso gli anziani, e reclamato un piano e una diversa politica sanitaria nazionale atrofizzata da tagli sistematici, dalla mortificazione dei medici di base e dalla chiusura dei presidi territoriali oltre che da una torsione privatistica centrata sulla spedalizzazione come regola generale votata al profitto. Di fronte alla beota euforia estiva delle riaperture irresponsabili e alla cecità del CTS e del ministro della salute ma non del suo vice 5 Stelle (a riprova che non abbiamo pregiudizi) abbiamo dato pubblicità all’allarme e alle proposte di un primario come Andrea Crisanti che il merito l’aveva conquistato sul campo.
“Politique d’abord” è stata anche quella di contestare per tempo l’abbraccio sempre più stretto di Zingaretti e Bettini ai 5 Stelle. Più la caduta economica e sociale si aggravava, più tornavano a salire morti e contagi, più Conte restava inerte, incapace di cambiare passo e scrivere le riforme necessarie e il piano richiesto dall’Europa, più quel PD lo esaltava come statista e leader dei progressisti e gli giurava fedeltà prosternandosi non pago di aver concesso ai 5 Stelle il taglio dei parlamentari, processi e persecuzioni giudiziarie senza fine, blocco dei cantieri e assistenzialismo a gogò. La corda troppo tirata alla fine l’ha spezzata Matteo Renzi e come in passato non gli abbiamo fatto sconti sugli errori di quella decisione gli abbiamo riconosciuto il merito. Alla fine abbiamo avuto ragione anche su questo e il governo di unità nazionale che invocavamo da mesi si è formato grazie a Mattarella.
Da due mesi a governare l’emergenza più grave della storia repubblicana al posto di un ambizioso avvocato avvolto in una nuvola di retorica è arrivato Mario Draghi il più preparato uomo di Stato di questa Italia. In due mesi si è fatto quel che Conte non aveva fatto in un anno. La campagna di vaccinazioni affidata al generale più esperto di logistica procede sempre più velocemente malgrado gli errori europei, quelli delle regioni e gli imbrogli delle Big Pharma. Il Piano per i fondi europei è pronto e alcune delle idee di metodo e di contenuto suggerite dall’Avanti! in concorso con gli esperti di Azione, del PD, di Italia viva, dei Verdi e di + Europa sono state accolte.
Nello stesso tempo l’Avanti! ha rivisitato le correnti più vitali della nostra storia non solo per rendere omaggio a un passato fecondo, glorioso e doloroso ma per interrogarci sulla loro attualità. L’attualità di quel riformismo socialista che ha creato tutto ciò che ancora conta e vale nella sinistra italiana: il partito e il sindacato dei lavoratori, le leghe e le cooperative di mutua assistenza, le rappresentanze comunali e parlamentari, la stampa e la cultura socialista, l’alleanza tra operai, braccianti, artigiani e ceti professionali e intellettuali borghesi. Quel riformismo era aperto alla collaborazione con repubblicani e radicali e dialogava con l’Italia liberale di Giolitti.
Eppure, già prima della grande guerra, fu sconfitto e messo in minoranza dentro il PSI dal prevalere con una nuova generazione di militanti, di una gioventù rivoluzionaria e avanguardista in rotta con i propri padri e i propri maestri e con la loro cultura positivista, gradualista, materialista, evoluzionista.
Una generazione quella dei Mussolini, dei Vella, dei Gramsci, Terracini, Tasca e Togliatti che affascinata dal volontarismo e dal mito dell’azione diretta – scioperi, lotte, occupazioni – nel contesto di una ormai dominante cultura idealista e irrazionalista credeva di piegare ai propri scopi l’onda d’urto di un bellicoso idealismo e ne fu travolta e soggiogata. Il PSI massimalista già nel ’19 aderì alla potente suggestione dell’ottobre bolscevico e dell’internazionalismo comunista.
Parallelamente l’anti nazionalismo pregiudiziale e assoluto lo aveva separato dalle correnti democratiche dell’interventismo e dalle sofferte esperienze del combattentismo degli ufficiali di complemento e dei fanti proletari in trincea che la guerra non l’avevano voluta ma vissuta e pagata con i loro immani sacrifici salvando la patria in pericolo.
Quel che restava del socialismo riformista giunse come minoranza disarmata e isolata agli appuntamenti decisivi del primo dopoguerra – gli appuntamenti col comunismo e col fascismo nati dal grembo tumultuoso del PSI e rivoltatiglisi contro. Il forcipe di Lenin per estrarre il PCI dal PSI aveva eretto il riformismo socialista e la socialdemocrazia europea a nemico pubblico numero uno, trattandoli da rinnegati, da traditori della classe operaia, “marciume” “tabe” “feccia della società”.
Non saranno da meno i fascisti e persino alcuni liberali tra i quali spiace annoverare persino Gobetti e Salvemini che a differenza del liberale Amendola e del liberal socialista Luigi Einaudi attribuiranno la colpa del disastro “all’imbelle riformismo”.
La demolizione morale del riformismo inscenata dai comunisti non risparmierà il “massimalismo parolaio” e in breve si estenderà a tutto il PSI dileggiato da Gramsci come “un circo Barnum” abitato da “un cavaliere del nulla” (così lo stesso Gramsci definì Matteotti appena trucidato dai fascisti) e intriso di una “letteratura di stampo oggettivamente fascista” come Togliatti recensì il Socialismo Liberale di Carlo Rosselli”.
Nella sua magistrale intervista a questo numero dell’Avanti! Rino Formica scrive: “La pregiudiziale antisocialista non è solo nell’atto costitutivo del ’21 ma diventa un mantra, una preghiera, un rito costante e permanente … e si scatena con le elezioni del 1946 quando il PSI diventa il primo partito della sinistra … il congresso del PSI del ’47 (quello della scissione di Palazzo Barberini) fu largamente inficiato dalla presenza in massa di comunisti che si iscrivevano nel partito socialista per condizionarne l’esito … quella pregiudiziale si è manifestata in modo clamoroso negli anni ’80 con i governi Craxi e il nuovo autonomismo socialista che spinge i comunisti a trovare un collegamento con l’antisocialismo della sinistra democristiana.
Questa alleanza vive ancora oggi quando il PSI sul piano organizzativo è stato ridotto ai minimi termini. Questo spiega perché masse popolari della sinistra si sono spostate verso la destra e le masse popolari insofferenti sono state attratte dal populismo distruttivo. Questo ha bloccato tutti i processi riformatori. Il ritardo riformistico in Italia nasce dalla pregiudiziale antisocialista a sinistra”.
Oggi quella pregiudiziale antisocialista si manifesta per lo più nella rimozione. Rimozione storica in quanto il riformismo è una categoria politica nata e prosperata nel mondo socialista dove si contrappose prima al rivoluzionarismo poi al massimalismo e alla tragica illusione di fare come in Russia quando il fascismo era alle porte.
Rimozione logica perché il riformismo liberale di Giolitti o di Einaudi non si sarebbero manifestati se non avessero incontrato l’apertura di Turati e dei riformisti socialisti e lo stesso sarebbe accaduto al riformismo cattolico del secondo dopo guerra senza la presenza e la volontà di dialogo prima di Saragat poi di Nenni. Rimozione politica paradossale infine quella che talvolta fa capolino persino nelle iniziative di oggi che si propongono di “unire i riformisti”, tutti i riformisti – liberali e democratici, di centro e di sinistra – ma non i socialisti che il riformismo lo hanno inventato e praticato, dal basso cioè nelle organizzazioni dei lavoratori e dall’alto cioè con le grandi riforme del primo centro sinistra e del governo Craxi.
Siamo abbastanza disincantati per capire l’imbarazzo di chi si scopre riformista dopo essere stato per gran parte della vita comunista e aver cantato in età avanzata le lodi del capitalismo.
Tranquilli: i socialisti ci sono e ci saranno, orgogliosi della loro storia, amici di coloro che come Giampaolo Bombardieri, Emma Bonino, Carlo Calenda, Marco Bentivogli provenendo da radici culturali intrecciate alle nostre sono con noi impegnati nel definire il profilo di un riformismo all’altezza dei tempi e a combattere con il mondo del lavoro, delle imprese, della cultura, dell’ambientalismo le battaglie utili e necessarie per riallineare l’Italia all’Europa più avanzata e al mondo libero, per promuovere la globalizzazione della sopravvivenza mentre incombono la minaccia climatica, quella pandemica e il rischio che la competizione tra le nazioni più potenti si trasformi in un urto incontrollabile.