Al momento stai visualizzando Una democrazia malata

Litigano su tutto, su fascismo e antifascismo, su ridurre le tasse ai ricchi o ai lavoratori, sull’elezione diretta del capo dello Stato, su chi sono gli amici e i nemici del’Italia in Europa e nel mondo. Su una sola cosa centro destra e centro sinistra vanno perfettamente d’accordo: il potere, il loro potere, il potere dei capi partito di scegliere i candidati e di conseguenza gli eletti in parlamento. 

Il voto dei cittadini deciderà la vittoria di questo o quel partito, di questa o quella alleanza ma chi saranno i futuri senatori e i futuri deputati lo decideranno i capi. Segretari, presidenti, leaders dei partiti – grandi o piccoli, di destra o di sinistra o di centro non fa differenza – saranno loro a staccare i biglietti di ingresso in parlamento. Non sono previste procedure democratiche o, se erano previste, sono state disattese così che alla fine, ovunque regna l’arbitrio. 

Il caso più noto è quello di Forza Italia ma qui il nepotismo è consustanziale con la natura monarchica del partito. Casi di nepotismo si registrano anche nei luoghi della Lega – per esempio la Toscana – in cui Salvini detta legge. Non è da meno la sinistra di Fratoianni che candida la moglie e alla legge bronzea del nepotismo non sfugge nemmeno Meloni che riporta in parlamento il cognato Lollobrigida. Il caso estremo di disordine e di arbitrio resta quello dei 5 Stelle: dopo liti furibonde mentre il movimento perdeva pezzi da tutte le parti lo statuto scritto da Conte gli ha consentito di piazzare i suoi fedeli nei pochi collegi sicuri e di escludere Virginia Raggi, l’unica che avesse ottenuto un buon risultato alle amministrative. 

Persino il Partito Democratico che per scegliere i candidati aveva importato in Italia il modello americano delle “primarie” se ne è stancato ed è regredito ai riti del tempo che fu. La regola che impone il 40 per cento di candidate donne viene disattesa se così vogliono i governatori delle regioni del sud. La regola del limite di non più di tre mandati completi – ovvero il numero di volte in cui si può essere candidati – è diventata un optional: vale per alcuni ma ne sono esentati altri come l’eterno ministro Franceschini che giunto alla sesta legislatura anziché uno stop ha ottenuto che anche la moglie sia candidata. 

Nessuno eguaglia l’intramontabile Ferdinando Casini che doppierà l’undicesima legislatura per garantire la difesa della Costituzione dalle riforme di Giorgia Meloni. Curioso: una riforma presidenzialista Casini l’aveva già votata nel 2005 quand’era alleato di Berlusconi. 

Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco dei penosi misfatti e delle pietose bugie con cui i maggiorenti di oggi cercano di coprire le loro piccole o grandi vergogne, ma il punto cruciale è un altro e in questo consiste, che di elezione in elezione è stato eroso e poi sovvertito il fondamento della democrazia. In ogni vera democrazia è la base a eleggere liberamente i suoi vertici, sono i cittadini, a scegliere deputati e senatori. 

Viceversa in Italia, da gran tempo, una ristretta cerchia di capi politici ha sequestrato questo potere e potendo scegliere chi candidare e chi no, di fatto, decide chi saranno i rappresentanti del popolo. Così ancora una volta il prossimo 25 settembre avremo un parlamento non di eletti ma di cooptati cioè di nominati dai rispettivi capi partito. 

La differenza è abissale: un conto è un senatore o un deputato che attraverso una procedura democratica ha ottenuto la candidatura della sua parte e poi il voto degli elettori naturali cioè dei suoi concittadini che lo conoscono e ai quali deve rispondere dei suoi atti. Tutt’altro accade quando si viene cooptati da un capo politico all’interno di una lista bloccata e i cittadini sono privi della possibilità di scegliere chi li rappresenterà. Questo corrompimento della democrazia è causa primaria della disaffezione e dell’astensione di milioni di elettori e spiega anche il successo nel recente passato dei partiti populisti. 

Se oggi, come dicono i sondaggi, un’ampia maggioranza di elettori si dichiara favorevole all’elezione diretta del Presidente della Repubblica è perché crede in tal modo di riappropriarsi del potere di scegliere da chi farsi rappresentare e guidare. Ma neppure un capo eletto dal popolo può curare l’assenza di democrazia, rischia anzi di darle il colpo di grazia.