Dopo aver a lungo indugiato Stefano Bonaccini, ha annunciato la sua candidatura a segretario del PD e, nella stessa circostanza, ha anche dichiarato di voler restare presidente dell’Emilia Romagna fino alla scadenza del mandato cioè fino al 2024. Evidentemente pensa che nessuno dei due incarichi esiga il tempo pieno. Ma così non è.
Nella vita di chi fa politica, talvolta per caso talvolta in conseguenza delle sue stesse ambizioni, si presentano dei bivi e si impongono scelte che vorremmo ma non possiamo evitare. Poiché ne ho stima immagino che sia fiducioso, dopo otto anni da presidente, di poter ben amministrare la sua regione anche con un lavoro part time, ma ben presto le opposizioni sfrutterebbero il doppio incarico per screditarlo.
D’altra parte non voglio credere che Bonaccini pensi di poter risollevare il suo partito dalla palude in cui si è ficcato senza dedicare a questo compito tutto se stesso, anima e corpo. Il precedente di Zingaretti, presidente del Lazio eletto segretario, vale un monito: bastò un anno di doppio incarico e si dimise tuonando contro la vergogna delle correnti. Ciò premesso Bonaccini non sarà l’unico candidato.
Per ora la sua discesa in campo sembra aver frenato le ambizioni di Elly Schlein che il 25 settembre eletta deputata dal PD cui non è iscritta si è dovuta dimettere, per legge, da vice presidente dell’Emilia Romagna quindi non potrà far da supplente a Bonaccini. La giovane e simpatica Schlein, dotata anche di cittadinanza americana e in passato attivista pro Obama, è già entrata e uscita un paio di volte dal PD ottenendo prima un seggio al parlamento europeo poi l’incarico di vicepresidente della regione, poi l’elezione a deputata e ora una modifica dello statuto che dovrebbe consentirle di candidarsi segretaria.
Il PD si sa è un partito aperto, scalabile, contendibile; lo è soprattutto per gli esterni cui si offrono ponti d’oro e fulminee carriere precluse ai militanti. Intanto nelle segrete stanze delle correnti si sondano disponibilità e potenzialità.
Scontato l’appoggio a Bonaccini della corrente dell’ex ministro Guerini. Sembra che la sinistra interna guidata dall’ex ministro Orlando stia cercando un accordo con la corrente dell’ex ministro Franceschini. Finora a fare le spese di questo mediocre trambusto congressuale sembra essere proprio la questione che doveva essere al centro del dibattito: qual è l’identità del PD? Che partito è, cosa vuol essere e chi vuol rappresentare? Come esercitare l’opposizione in modo risoluto, efficace – “con l’artiglio” avrebbe detto Berlinguer – ma senza scivolare in quell’estremismo declamatorio che prelude all’irrilevanza?
Letta, il segretario uscente (nel senso che sta sull’uscio un pò fuori un pò dentro) ha fatto eleggere dall’Assemblea un comitato, cento persone, metà interni, metà esterni cioè non iscritti che però devono riscrivere la carta dei valori e lo statuto. Quella degli esterni o esponenti della società civile è una vecchia invenzione della Democrazia Cristiana che, risorsa o espediente che fosse, appartiene alla fase finale della sua storia e non ne fermò il declino. Non sarebbe stato meglio affidare questo compito ai mille componenti della stessa Assemblea Nazionale anziché continuare a umiliarla a mero organismo di ratifica di decisioni prese altrove?
L’Assemblea avrebbe potuto preparare e orientare il dibattito congressuale lavorando per sessioni e magari dividendosi in commissioni sui singoli temi in modo da riservare alle sedute plenarie quella discussione politica generale che nel PD manca da anni? C’è ancora modo di correggere la rotta evitando il rischio che se fallisci nel prepararti ti dovrai preparare al fallimento?
La disaffezione dalla politica non si misura solo col numero di astenuti in continua crescita. Si misura anche con il vorticoso mutare del voto degli italiani. A ogni elezione si cambia e vince sempre chi era all’opposizione. Anche questo è un sintomo di disaffezione: dal leader e dal partito che avevamo scelto e che per un motivo o per l’altro adesso ripudiamo sicché alla fine della giostra nessuno di quelli che si è provato a governare ci sembra credibile.
Conclusione: per gli italiani a essere sicuro non è l’usato ma il nuovo, non è chi governa, ma chi si oppone. Con ogni evidenza si tratta di un abbaglio e di un azzardo, eppure continuiamo a illuderci che chi non conosciamo sarà migliore di chi abbiamo visto all’opera.