Cos’è meglio o meno peggio?
Che una legge elettorale proporzionale spinga i partiti a presentarsi agli elettori ciascuno con la propria identità e, dopo il voto, in base ai risultati e alle affinità formino in parlamento una maggioranza e un governo oppure che una legge elettorale maggioritaria (in tutto o in parte) li costringa a allearsi formando coalizioni prima del voto?
Siccome la nostra democrazia ha sperimentato entrambe le possibilità conosciamo vantaggi e svantaggi dell’uno e dell’altro sistema. La prima repubblica – 1948 al 1994 – era quella di partiti con chiara identità ideologica e forte radicamento sociale e territoriale. Quei partiti, divisi su scelte fondamentali come quella tra mondo libero e mondo comunista, erano però concordi sia sulla legge proporzionale sia sul primato del parlamento dove si formavano formare maggioranze e governi. Risultato: una deprecabile instabilità dei governi compensata da una sostanziale stabilità del sistema politico che pur tra fasi confuse e convulse, aumento della spesa pubblica e della corruzione, promosse e accompagnò la crescita economica e civile sino a fare dell’Italia repubblicana la quinta potenza economica del mondo.
Crollati i muri comunisti, aggrediti e distrutti i partiti di governo dai potentati economici e dal potere giudiziario, tra le macerie della prima repubblica si formarono nuove forze politiche mescolate con quelle estreme del passato riciclate e ribattezzate. La nuova legge elettorale per tre quarti maggioritaria costrinse i partiti – pena la sparizione – a coalizzarsi formando cartelli elettorali intorno a un leader e a schierarsi o al centro destra o al centro sinistra (“di qua o di là” si diceva allora). Si giunse persino a far finta che il capo del governo venisse eletto direttamente dal popolo col solo mettere il suo nome sulle schede elettorali e sui manifesti. Ma erano lucciole non lanterne.
A meno di un anno dalla vittoria elettorale la Lega sfiduciò Berlusconi. Lo stesso accadde a Prodi silurato la prima volta da Rifondazione comunista e la seconda da Mastella. Anche nel 2011 Berlusconi fu costretto alle dimissioni dalla crisi della sua coalizione. La prima volta il parlamento lo sostituì con il “tecnico” Lamberto Dini, la seconda gli subentrò il tecnico Mario Monti.
Per venire ai giorni nostri, Luigi Di Maio, vincitore delle politiche del 2018, lasciò l’incarico a un tecnico appena reclutato, Giuseppe Conte. Questi, consumata dopo la prima anche la sua seconda maggioranza parlamentare, dovette lasciare il comando al super tecnico Mario Draghi.
Dunque, una legge elettorale maggioritaria (in tutto o in parte) non assicura affatto la stabilità dei governi mentre, come si è visto, può irrigidire e paralizzare la dialettica parlamentare fino a provocare la necessità di un intervento esterno, un governo del presidente, un commissariamento tecnico.
Ebbene, cosa succederà se fra un anno voteremo con l’attuale legge elettorale? Il centro destra dopo due legislature di divisioni si ricompatterà davanti agli elettori per conquistare qualche seggio in più; negherà la rivalità tra la Meloni e il duo Salvini/Berlusconi che comunque riesploderà dopo il voto specie se FdI sarà il primo partito. Lo stesso accadrebbe sull’altro fronte ove mai il PD, Calenda, Renzi e i resti dei 5 Stelle di fronte agli elettori facessero finta di unirsi. Anche qui ben presto le divisioni occultate per convenienza riesploderebbero con effetti deflagranti.
Come si può credere che coalizioni inventate trent’anni fa e ripetutamente fallite possano essere resuscitate, funzionare e durare dopo essersi spezzate, usurate, contraddette facendo opposte scelte internazionali e di governo?
Certo, sarebbe bello poter eleggere direttamente il capo del governo o – come lo chiama Renzi (e prima di lui Mario Segni) – “il sindaco d’Italia”. Peccato che occorra una riforma costituzionale senza la quale sarebbe una mera finzione. Anche per ristabilire la fiducia tra elettori ed eletti meglio in questa fase tornare all’antico: legge proporzionale e voto di preferenza. Nella speranza che resti almeno qualcosa dell’unità nazionale e dello spirito repubblicano con cui Draghi ha guidato il suo governo, il migliore da più di trent’anni e nel momento più difficile.