Arturo Parisi che del PD – e, prima ancora, dell’Ulivo – è stato con Prodi ideatore e padre l’ha detto con sferzante chiarezza: “chi avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che due democristiani come Letta e Franceschini si sarebbero dedicati a riportare il PD nella casa le cui fondamenta sono state messe a Livorno?” Il congresso in corso, argomenta Parisi, non è il congresso del PD ma l’occasione di un nuovo partito, figlio della riunificazione tra il PD e di Articolo 1, il partito costituito cinque anni fa dalla scissione di D’Alema e Bersani e che ha come segretario Speranza. “Questo nuovo partito si fonda sul ritrovarsi di quella comunità di sinistra che si sente originata a Livorno nel 1921 dalla secessione comunista dal partito socialista”.
Lucida e impietosa la diagnosi di Parisi fa seguito alle proteste di altri storici esponenti della parte cattolica del PD come Pierluigi Castagnetti, Beppe Fioroni, Luigi Zanda di fronte all’improvvida decisione di riscrivere il Manifesto dei valori, cioè la carta d’identità del PD fondato nel 2007/2008. Con la cartina di tornasole di Parisi vanno letti anche interventi di segno opposto in un dibattito congressuale fino a ieri decisamente sotto tono.
Mi riferisco all’invito di Andrea Orlando a imprimere al partito democratico una torsione socialista e la suggestione del sindaco di Bologna, Matteo Lepore, a cambiar nome evocando nel nome il lavoro quale fondamento e senso del partito. Evidentemente la parola “democratico” non piace più o non basta più a quella parte del partito che la sente come troppo generica e interclassista, comunque inadeguata a definire la nuova identità.
Intendiamoci, parlare di partito socialista o di partito del lavoro non è peccato, al contrario poteva e può innescare una discussione utile a illuminare non solo il qui e l’ora della politica, ma anche chi si vuole rappresentare e la prospettiva a lungo termine. Viceversa con la parola socialismo c’è chi come Goffredo Bettini sogna di riaccendere nientemeno che “la scintilla dell’ottobre”, chi vuole “espungere il liberismo” dalle proprie fila come ci si libera dal male e c’è chi, molto più prosaicamente, se ne serve per nobilitare, camuffandola, la scelta di autoconservazione di una parte del gruppo dirigente post comunista, “la ditta” bersaniana.
Son quasi dieci anni che Bersani non vuole andare avanti ma tornare indietro, dal PD al PDS, da Veltroni a D’Alema. Come si sa costoro non guardano al socialismo democratico europeo, ma a Giuseppe Conte, il trasformista che loro stessi hanno innalzato a mito progressista e di cui son diventati prigionieri. Non a caso a replicare difendendo l’identità originaria del PD sono stati i Verini, i Ceccanti, i Tonini cioé gli ultimi eredi di Veltroni, il post comunista che fondò il partito democratico all’americana. La più netta è stata Marianna Madia “il tentativo di rifare i DS è un errore storico e un errore di analisi”.
Altrettanto chiaro ma più argomentato il candidato segretario in pole position, Stefano Bonaccini, ha riconosciuto che “per la prima volta il PD vede insidiata la sua stessa funzione di perno di un’alternativa di centro sinistra di governo”. Bonaccini non ha escluso il cambio del nome “nessun tabù siamo una forza laburista”, ma al contempo ha bollato quelli che ha chiamato “rigurgiti identitari il cui sbocco appare più che altro un ritorno alle casematte precedenti” cioè, appunto, il PDS e i DS.
Se non siamo troppo ottimisti si direbbe che, a differenza dei congressi più recenti in cui al primo stormir di fronde e di nomi non seguiva un confronto politico ma si eleggeva un nuovo segretario concordato tra i capi corrente, questa volta si intravvedono le ragioni, la volontà, le coordinate di una discussione politica vera.
Del resto, come dicevano le donne, se non ora quando? Il PD nei sondaggi è precipitato sotto il 15 per cento (quattro punti in meno delle elezioni del 25 settembre) e, per sopra mercato, è stato investito dallo scandalo dei finanziamenti illegali dal Qatar e dal Marocco.
Spiace dirlo ma lo scandalo esploso a Bruxelles non è uno scandalo europeo ma uno scandalo italiano. E non è uno scandalo del gruppo socialista bensì di Articolo 1, la piccola corrente del post comunismo italiano che fa capo a Speranza e Bersani dietro ai quali si staglia la non immarcescibile ombra di Massimo D’Alema.