A destra il governo di Giorgia Meloni ha mosso i suoi primi passi inciampando nella confusione. Alcune sono difficoltà oggettive come quella di contenere i rischi incombenti di recessione economica e di ulteriore impoverimento dei lavoratori dipendenti e del ceto medio. Altre sono conseguenza delle smanie di riscatto dei partiti alleati che non hanno ancora digerito il ridimensionamento della loro forza sancito dalle elezioni del 25 settembre.
Lega e Forza Italia, in forme e modi diversi, sembrano soffrire la leadership di Giorgia Meloni e volutamente o meno, per spirito di rivalsa o per mero protagonismo, nell’intento di condizionarla, rischiano di appannarla e di indebolirla.
Per parte sua la presidente del Consiglio non è sembrata finora determinata o capace di imporre lo stesso spartito a ministri e sottosegretari che, a beneficio di giornali e tv, recitano a soggetto ciascuno la propria versione sulle misure per contenere gli sbarchi di migranti, sui provvedimenti sanitari passati e futuri, sull’invio di armi all’Ucraìna.
Molti si agitano come se la campagna elettorale non fosse finita e si trattasse ancora e sempre di guadagnare qualche voto per il proprio partito anziché risultati per il governo di cui fanno parte e per la coalizione che lo sostiene.
Non è una novità: storicamente il centro destra si compatta quando si tratta di vincere il maggior numero possibile di seggi e si disunisce quando si tratta di governare. Accadde ripetutamente a Berlusconi che pure disponeva di consensi maggioritari e di una leadership incontrastabile. Non sorprenderebbe il ripetersi della stessa trama oggi con una premier “colpevole” di aver scalzato e surclassato tutti i suoi concorrenti.
Se a destra sono latenti i i rischi di instabilità il campo delle opposizioni più che da divisioni è connotato da radicali incompatibilità come quelle tra Terzo Polo e 5 Stelle. In mezzo ora si agita ora ristagna il travaglio del Partito Democratico. Nato come partito a vocazione maggioritaria quando il sistema era bipolare, il PD non ha saputo né evitare l’avvento di un sistema multipolare né adeguarsi alla novità.
Già dal 2013 l’affermazione del Movimento 5 Stelle a un livello pari a quello del PD aveva provocato due opposte spinte centrifughe. La prima, quella di apertura ai 5 Stelle promossa da Pier Luigi Bersani, fu sprezzata e respinta dai grillini. Eppure quella suggestione è sopravvissuta anche al connubio tra 5 Stelle e Lega per poi approdare al governo giallorosso.
Sospesa nella stagione dell’unità nazionale quindi ripudiata quando Conte mette in crisi il governo Draghi questa strategia continua a ispirare le mosse di quella parte del partito pronta a ri-concedere a Giuseppe Conte la leadership dell’ipotetico fronte progressista.
L’opposta strategia di Renzi di conquistare la maggioranza al PD anche nel sistema tripolare, alimentata e illusa dal 41 per cento conquistato alle europee del 2014, è franata con la débacle referendaria del 2016 e la sconfitta elettorale del 2018. Dopo di allora lotte personali e politiche intervallate da armistizi di potere tra le correnti hanno minato l’unità e poi anche l’integrità del PD spezzato da tre successive scissioni.
La circostanza che le prime due scissioni siano state capeggiate da due ex segretari (Bersani e Renzi) e la terza da un ex ministro segnala la slealtà dei gruppi dirigenti e la fragilità del tessuto unitario.
Il prossimo congresso è di fronte a una divergenza reale, identitaria e strategica. Il PD deve restare il partito di centro sinistra pensato al suo concepimento o deve diventare un partito di sinistra sinistra? E’ ancora possibile occultare e medicare questa divergenza affidando la mediazione ai mutevoli compromessi tattici tra le vecchie correnti o è ormai ineludibile un chiarimento di fondo e un big bang del partito democratico?
Mentre i D’Alema, i Bersani, gli Orlando incitano il PD a seguire l’invito di Bettini – “A sinistra. Da capo” – e rispolverano l’armamentario di un classismo conflittuale che ricorda assai più la tradizione comunista che il socialismo democratico e liberale di stampo occidentale, i sedicenti riformisti tacciono.
Forse confidano in qualche papa o papessa straniera, giovanissima, diversissima, capace di imbrigliare le spinte divergenti o forse i loro leader combattono solo quando la vittoria è garantita al tavolo delle contrattazioni correntizie.