Al momento stai visualizzando L’inevitabile vittoria di Giorgia Meloni

Tutto come previsto: il centro destra ha vinto, Giorgia Meloni ha trionfato. Sebbene il risultato fosse quello annunciato da settimane anzi da mesi, ieri notte faceva impressione vedere in televisione il manto azzurro del centro destra distendersi su tutta Italia con l’eccezione di poche, sparute isolette di diverso colore. Era la rappresentazione cromatica dei collegi uninominali, quelli in cui i seggi vengono assegnati col sistema maggioritario. In questi duecentotredici collegi di Camera e Senato, esattamente come previsto da quasi tutti i sondaggi (e ripetutamente anche da  chi scrive), il centro destra ha fatto man bassa. Salvo variazioni dell’ultimo minuto la destra ne ha conquistati 170/180. Tutti gli altri sommati insieme appena trentacinque. Per la precisione  sedici il PD e quindici i 5 Stelle. A parte stanno i due parlamentari  della Sud Tiroler e i due conquistati dall’exploit del solitario candidato siciliano Cateno De Luca. 

Ora, come spesso accade, appena proclamata la sconfitta, gli  sconfitti si accusano reciprocamente di colpe e responsabilità:  sono andati divisi al voto e divisi rimangono anche dopo.  Sembrano non capire o fingono di non capire che il disastro è  stato consumato molto prima, per tutto il tempo in cui pur  avendone la possibilità non hanno riformato una legge elettorale  da tutti giudicata la peggiore possibile. Una legge elettorale che  premia le coalizioni e penalizza i partiti che si presentano con la  loro identità. Letta e Conte, Calenda e Renzi sapevano benissimo  a cosa andavano incontro perciò, almeno su questo, avrebbero  potuto concordare e agire insieme varando una nuova legge elettorale proporzionale. Era giusto, era opportuno, era loro  interesse farlo ma non l’hanno fatto. 

Peggio, mentre, il centro destra sopiva i suoi contrasti interni e varava un programma comune dosando e distribuendo le candidature tra Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega gli altri, cioè i 5 Stelle, il PD e l’illusorio Terzo Polo, hanno acuito le differenze ed esasperato le divisioni combattendosi tra di loro assai più di quanto abbiano contrastato la coalizione di centro destra. Persino dopo la comune disfatta nei loro commenti non si sono risparmiati accuse veementi e velenose né hanno mostrato segni di resipiscenza per i loro errori. 

Analizzando i riflessi di ciascuna forza politica dell’immaginario “campo largo” di fronte al risultato ci si accorge che tutte continuano a ragionare come se si fosse trattato di un’elezione col sistema proporzionale mentre non lo era. Così Giuseppe Conte celebra il suo quindici per cento come una grande rimonta, un sorprendente successo. Ma se tutti i sondaggi da tempo lo davano al 13 davvero due punti in più giustificano l’esaltante impresa? Incurante di aver peggio che dimezzato il 32  per cento delle precedenti elezioni – quelle stravinte da Luigi Di Maio nel 2018 – Conte ha solennizzato la rottura col Partito Democratico, o meglio, con il suo attuale gruppo dirigente cui rimprovera di aver sostenuto Draghi e la sua agenda mentre lui rivendica il merito di averlo fatto cadere. 

A sua volta, a specchio, Letta rovescia in colpe imperdonabili i titoli vantati da Conte. Ma Letta è il bersaglio preferito anche nel dopo elezioni di Calenda e di Renzi che già profetizzano che dopo il voto il PD tornerà a cuccia da Conte. 

Allo stato non si direbbe proprio come non si direbbe che l’essere tutti diventati partiti di opposizione costituisca il miglior viatico per andare d’accordo. Per capire l’abisso di buon senso che continua a distinguere partiti e uomini del centro destra da quelli dell’altra parte politica basti riflettere sulla circostanza che Giorgia Meloni, che è stata coerentemente all’opposizione nelle due precedenti legislature, si è ben guardata dal contestare a Berlusconi e a Salvini le loro giravolte e cioè di essere stati al governo il primo con il PD di Letta e poi con Draghi e al secondo di aver governato con Conte e poi con lo stesso Draghi. 

Quanto a Letta l’aver riportato il PD al livello del 2018, cioè della bruciante sconfitta di Renzi, lo ha subito convinto ad annunciare la convocazione di un congresso in cui non si candiderà segretario. 

E’ una decisione seria e onesta come è nella sua natura. Di certo però non cancella i suoi errori a cominciare dalla predilezione per il sistema maggioritario sino ai toni estremi e bellicosi con cui, cercando lo scontro con Giorgia Meloni, ha finito col soccombere nell’indifferenza dell’inamovibile nomenklatura targata PD.