Al momento stai visualizzando E se il PD diventasse laburista?

“Fallisci nel prepararti e ti preparerai al fallimento” il monito del  leader dei laburisti britannici Keir Starmer è rivolto al suo partito,  ma vale anche per il PD. Azzannato dalla lupa di Roma, Letta con  gli occhi di tigre ha annunciato il congresso e subito, prima delle  idee, sono spuntate le candidature. 

Ha cominciato l’ex sottosegretaria Paola De Micheli, e lo spoglio delle schede non  era terminato. Altri nomi li hanno lanciati i conduttori televisivi  dalle cattedre dei talk show. La sinistra del partito, corrente  minoritaria, di candidati ne ha due: Andrea Orlando e Beppe Provenzano. Poi c’è il caso della vice presidente della Regione  Emilia Romagna Elly Schlein, giovane non iscritta, dietro la quale si sospettano nobili padrini o nonnini – forse lo stesso Romano Prodi orfano di Letta e stanco delle sardine. I veri aspiranti per ora fanno melina e in attesa del non gratuito patrocinio dei grandi elettori capi corrente si fanno segnalare dagli amici giornalisti o da nuovi zelanti adepti che gareggiano per il titolo di primo dichiarante. 

Stefano Bonaccini accorto presidente dell’Emilia Romagna vuole un congresso di “rigenerazione”. La parola equivale a rinascita, rifondazione, ma in bocca a un amministratore evoca gli interventi di risanamento e riqualificazione di strade e città. Senonché il cemento su cui si costruisce un partito e che lo tiene insieme è fatto di altri materiali: è impastato di ideali e interessi, di sentimenti e di tradizioni, di lotte politiche, sociali, culturali senza le quali non c’è speranza e non c’è forza.

Per ora i capi corrente tenendo le carte coperte studiano le mosse e le alleanze possibili, sondano sindaci e governatori per assicurarsene l’appoggio al momento della conta. 

I sindaci del PD – tanti, tantissimi – e i governatori regionali – pochi pochissimi – eletti direttamente dal popolo godono di autorità e potere, ma finora si sono sottomessi alla disciplina delle correnti. 

E’ tempo di uscire da queste gabbie e di rovesciare il modello correntizio che ha imposto ai territori candidati al Parlamento scelti, spartiti e catapultati da Roma alle periferie.  Anche questo ha pesato nel determinare la sconfitta. Nella sua breve e tormentata esistenza il PD aveva introdotto nella vita interna un criterio – le primarie – per scegliere i candidati a competere nelle elezioni politiche, regionali e comunali. Era un modello nuovo, democratico che promuoveva la partecipazione degli iscritti e degli elettori. Invece, col passare degli anni, le primarie sono state limitate, dismesse e sacrificate sullo sconsacrato altare delle spartizioni correntizie. 

A primavera ci sarà un’importante tornata elettorale, è tempo di invertire la rotta e di restaurare e rinverdire le primarie nella loro pienezza e di reclamarne l’applicazione puntuale anziché farsi imporre le scelte dal centro, dal vertice correntizio. La costanza della vita democratica di un partito è sostanza e parte non secondaria della sua identità, della sua carta di valori, del suo statuto. 

A proposito di identità: sempre più spesso nel passato recente, e in modo ormai angoscioso e impaziente dopo la sconfitta, l’identità del PD fissata da Veltroni nel congresso fondativo del 2008 viene revocata in dubbio. Nato dalla fusione tra parte del vecchio PCI e la sinistra DC ad ogni diversa stagione politica il PD ha cambiato segretario e visto prevalere l’uno o l’altro indirizzo dei due soci fondatori. Il risultato è stato quello di una successione di scissioni: di Bersani e Speranza quando comandava Renzi, di Renzi e Calenda quando comandava Zingaretti. Segno inconfutabile di un amalgama non riuscito. 

Come immaginare di cambiare verso senza ancorarsi a un fondamento più solido di questo, un fondamento indipendente dall’alleato di turno? Emanuele Fiano dirigente e parlamentare milanese del PD dopo la sconfitta ha scritto: “Abbiamo alle spalle un secolo e mezzo di storia e di conquiste del movimento socialdemocratico dei lavoratori; non ci dovrebbe risultare difficile sapere da dove ripartire.  Naturalmente a patto di riconoscersi in quella storia.” 

Se il PD privo di questo fondamento si avventurasse in alleanze vuoi con i 5 Stelle, vuoi con Renzi e Calenda sarebbe destinato a subire nuove traumatiche lacerazioni.