Personale fu la lite e personale è stata la riconciliazione. Com’era prevedibile e previsto la maggioranza uscita dalle urne e da una legge elettorale che premia le coalizioni e punisce i partiti che corrono solitari ha ricomposto il conflitto esploso nei giorni in cui il nuovo parlamento ha eletto i presidenti di Camera e Senato. La lite tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni è stata teatrale, fragorosa e sgradevolmente segnata da uno scambio di giudizi al limite dell’ingiuria. Nondimeno tra i due litiganti si era subito interposto un folto gruppo di pontieri, mediatori, conciliatori impegnatissimi a frenare l’irruenza bellicosa dei protagonisti, a ridimensionare la portata delle accuse reciproche, a edulcorare gli insulti riducendoli a incomprensioni ed esasperati stati d’animo.
Possiamo dire che in questo caso il collettivo cioè l’insieme dei partiti di centro destra e la loro volontà di accordo ha prevalso e si è imposto sulle reciproche idiosincrasie dei capi. Il centro destra non è nuovo a scenate tra i suoi leader – si pensi al precedente dello scontro irrimediabile tra Berlusconi e Fini – ma in genere insorgevano dopo anni di difficile convivenza quando le tensioni accumulate tracimavano fuori da ogni controllo. Questa volta invece lo scontro è avvenuto subito, prima ancora che iniziasse il viaggio della nuova maggioranza di governo.
C’era stato, è vero, nel 2018, un episodio, un esordio, anche più burrascoso e istituzionalmente molto più grave: la sgangherata minaccia di messa in stato d’accusa scagliata da Luigi Di Maio contro il Presidente della Repubblica per il suo discreto sconsigliare l’inopportunità della nomina di un euroscettico come Paolo Savona a Ministro dell’economia e delle finanze. Ma il potenziale conflitto istituzionale innescato da menti agitate e mani inesperte fu spento prima che divampasse l’incendio.
Il conflitto dei giorni scorsi invece non aveva niente di istituzionale, era invece tutto politico, anzi, personale e in larga misura generazionale nel senso dell’età e anche del genere. Berlusconi, capo storico e indiscusso per vent’anni del centro destra, era uso comandare ma anche a metter pace sapendo che cedere qualcosa agli alleati era un modo di riaffermare il suo primato e il suo comando.
Oggi la situazione è completamente cambiata. Al comando c’è una donna grintosa, una giovane donna che viene dal popolo, che poco o nulla gli deve ma che, a sua volta, sbaglierebbe se traesse da questa sua forza motivo di superbia e atti di intemperanza. In democrazia l’esercizio della leadership non deve mai eccedere a prepotenza, farsi hubris, pena il suscitare reazioni che ne minano l’autorità.
In democrazia e in particolare in governi di coalizione nessuno governa da solo e anche se pensa di essersi fatta da sola e di non dover niente a nessuno Giorgia Meloni non può durare al comando pensando di “tirar sempre dritto”, di non arretrare e “non cedere mai di un millimetro”. Ho richiamato le espressioni iconiche di cui abusarono i due Matteo, Renzi e Salvini, e che diedero forma alla loro parabola tanto diversa e tanto simile. Le ali del consenso sono fatte di piume e di cera come quelle di Icaro: più ti innalzano verso il sole più rapidamente il calore le scioglie.
A giorni Giorgia Meloni otterrà dal presidente della Repubblica l’incarico di formare il governo, in quel momento dovrà aver definito la lista dei ministri suoi e degli alleati e finalmente conosceremo il programma suo e della sua coalizione. Il programma di governo avrà poco a che fare – si spera – con il programma del centro destra già di suo incomponibile per le notevoli differenze tra i programmi dei singoli partiti e ormai reso obsoleto dal precipitare degli agenti critici.
Il perdurare dell’inflazione strema famiglie e imprese, rallenta i consumi, allontana la crescita mentre l’Europa fatica a trovare la concordia nell’azione. L’Europa, molti predicono, sarà il vero banco di prova del nuovo governo che dovrà rimontare il deficit di credibilità procurato dalle ripetute campagne populiste e sovraniste di Meloni e di Salvini. Replicare anche solo in parte toni e contenuti di quelle campagne sarebbe semplicemente esiziale per l’Italia e per lo stesso governo.
A Giorgia Meloni che della coerenza nell’opposizione ha fatto il suo marchio identitario dovremo chiedere ora che governa di superare una prova ben più difficile: il coraggio dell’incoerenza da se stessa.