Al momento stai visualizzando Il Socialismo dell’avvenire. Riempire le culle, formare i giovani, salvare la Terra.

Quali riforme devono essere messe in cantiere si sa dagli indirizzi fissati dall’Unione Europea: conversione ecologica e digitale dell’economia, riforme della PA, della giustizia civile, della scuola. Quello che non si sa è come l’Italia le declinerà, con quali strumenti di legge, quali provvedimenti amministrativi, quali procedure di spesa pubblica.

Non sappiamo neppure quante risorse verranno destinate a sussidi e per quanto tempo, quante a investimenti e in quali settori strategici. Tutto è demandato al piano nazionale – “di Ripresa e Resilienza”- che il governo deve presentare a Bruxelles il 15 ottobre.

Le questioni di metodo devono essere assunte a monte della definizione dei contenuti poiché da esse dipende la fattibilità di qualunque piano. Invece non sappiamo quale architettura finanziaria sosterrà un impegno così vasto e gravoso in modo da non precipitare il paese nel baratro di un debito insostenibile.

Non dimentichiamo che ben prima di ricevere i 200 miliardi

che l’Europa ci ha destinato,

per conto nostro ci siamo già

indebitati di altri 100 miliardi

con i quali il totale del nostro

debito è salito a oltre 2500 mld

e, in percentuale, dal 134 a circa

il 160 per cento del PIL.

Sul piano politico non sappiamo

se governo e maggioranza

procederanno da soli o se coinvolgeranno

le regioni, se una

commissione parlamentare ne

accompagnerà l’azione e quale

sarà il ruolo delle forze sociali.

Avremo un parlamento co-governante

che istruirà molti o

alcuni provvedimenti? Si concerterà

con le regioni? Dunque,

tutti insieme, maggioranza

e opposizione, parlamento,

regioni, corpi intermedi concorderanno

la destinazione dei

fondi che l’Europa ci presterà

o ci donerà? Un simile scenario

evoca una forma di unità

nazionale o ne è l’anticamera.

Ma perché ciò accada occorrerebbe

innanzitutto abbassare

il volume dell’ininterrotto, assordante,

intossicante frastuono

che da anni accompagna

ogni dibattito pubblico. Occorrerebbe

un soprassalto di

responsabilità da parte di tutti

o, almeno, dei principali protagonisti

politici a cominciare

dal presidente del Consiglio e

dai leader di maggioranza e di

opposizione. Soprattutto occorrerà

sciogliere preliminarmente

alcune questioni finanziarie

e di governance tuttora

irrisolte: per mettere il sistema

sanitario in sicurezza ricorreremo

o no al MES? A quali imprese

affideremo l’attuazione

della banda ultra larga e la sua

estensione a tutto il territorio

nazionale premesse ineludibili

della transizione digitale?

Useremo i fondi europei come

un bancomat consumandoli in

una pioggia di bonus e sussidi

che andranno a sommarsi a

quelli sciagurati del reddito di

cittadinanza e di quota cento?

I riformisti non negano l’emergenza

e non negano la necessità

di fare debiti per superarla.

Però, a differenza degli irresponsabili

che pullulano non

solo tra i populisti e i nazionalisti

e, come e prima di Mario

Draghi, i riformisti sanno che

i debiti buoni sono quelli fatti

per finanziare riforme lungimiranti

e opere necessarie allo

sviluppo mentre i debiti cattivi

sono quelli fatti per elemosinare

consensi con spese improduttive.

È tempo che questo

antico dibattito torni d’attualità,

che i riformisti ovunque

collocati escano allo scoperto e

si assumano una responsabilità

più grande del tenere in vita un

governo purchessia. Intendo la

responsabilità di parlare a tutto

il paese dicendo come stanno le

cose e quel che bisogna fare.

Viceversa quel che si capisce è

che, almeno fino al 20 settembre,

terranno banco i comizi

nelle sei regioni in cui si voterà,

mentre in tutta Italia andrà in

scena lo scontro sul referendum

taglia parlamentari. Smaltiti i

risultati del referendum e formate

le giunte regionali è facile

prevedere che l’attenzione delle

forze politiche sarà calamitata

dal varo della nuova legge elettorale

e, in caso di vittoria dei sì,

dal ridisegno dei collegi e dall’adozione

degli ineludibili contrappesi

costituzionali all’eliminazione

di 345 parlamentari.

A loro volta, governo nazionale

e governi regionali, Confindustria

e sindacati sembrano più

determinati a scontrarsi sui

livelli – nazionali o aziendali –

di contrattazione che non a incontrarsi

sulla destinazione dei

fondi europei. Insomma, quello

che si annuncia non sembra

lo scenario più propizio alla

concordia nazionale e nemmeno

a un dibattito responsabile

sul nostro futuro.

Anche nella più larga opinione

pubblica prevalgono vecchi

cliché a cominciare dalla recidiva,

pregiudiziale contrapposizione

di Stato e mercato,

agitati come tabù e totem

ideologici, come spauracchi,

come feticci. Ammesso che in

un passato non remoto quella

dicotomia fosse uno spartiacque

veritiero, di sicuro oggi

non lo è più, salvo che nelle

menti obnubilate di politicanti

e commentatori strapaesani e

di sciamani vaneggianti. Nel

mondo reale stato e mercato

sono molto più intrecciati che

contrapposti e la ricchezza e la

forza delle nazioni dipendono

dal grado e dalla qualità della

loro integrazione perché è la

loro integrazione che configura

un “sistema paese”.

Dagli USA alla Cina il capitalismo

è sempre più politico e

la politica, i governi, gli Stati

sono sempre più immedesimati

con il sistema economico capitalistico

e il benessere e la solidità

di una nazione dipendono

dal loro convergere su obbietivi

condivisi. Oggi, il benessere

italiano – come quello tedesco

o francese – dipende in primis

dalle nostre aziende esportatri

ci, dalle loro performances che

colmano o eccedono i disavanzi

accumulati dal lato delle spese

e dei settori deficitari.

Così, mentre fervono dibattiti

antidiluviani tra paladini dello

Stato regolatore e cantori dello

Stato imprenditore, già oggi

e ancor più domani lo Stato è

esso stesso, innanzitutto, capitale.

Dunque, Stato capitalista

nel senso che fornisce alle

imprese in quanto apparati

tecnico produttivi non solo le

garanzie di accesso ai crediti,

ma, non di rado, anche i finanziamenti

diretti, per non dire

gli obiettivi, i progetti e gli strumenti

amministrativi necessari

alla loro attuazione e alla loro

capacità di generare profitti e

ulteriori investimenti.

Ancora una volta tocca ai riformisti

di svegliare dai loro

sonni dogmatici statalisti e

mercatisti, di contenere l’assistenzialismo

nei limiti dell’

indispensabile e di sbarrare la

strada ai disegni delle lobbies

di potere che vogliono profittare

delle emergenze.

L’emergenza sanitaria e ambientale,

economica e sociale

esige un riformismo d’avvenire

che guardi dritto alle cause

strutturali del nostro declino e

le rimuova dal nostro futuro.

Le priorità che sovrastano tutte

le altre impongono di agire con

misure efficaci e immediate per

fermare il declino italiano.

La prima e più importante

riforma è quella di riempire

le culle. Solo accrescendo le

nascite correggeremo l’incombente

drammatico declino demografico

di un paese troppo

vecchio. Non basta. Il centro

di gravità politico, come dice

il piano europeo (Next Generation

UE) deve essere spostato

a favore delle giovani generazioni.

Questo ci impone di

fermare la fuga all’estero dei

giovani italiani più dinamici

e più trascurati – gli espatriati

sono più di mezzo milione

negli ultimi sette anni. I nostri

giovani non sono ingombri da

sussidiare ma risorse da valorizzare,

non sono le vittime

designate ma i soccorritori indispensabili

di una società che

senza di loro si sta spegnendo.

Un esempio tra gli altri. Il

nodo di tanti problemi italiani

– l’inefficienza, l’inefficacia,

l’iniquità delle nostre pubbliche

amministrazioni – potrebbe

essere sciolto formando il

capitale umano costituito dai

giovani nativi digitali perché

i migliori tra loro, assunti per

concorso, modernizzino una

pubblica amministrazione

costituita in maggioranza da

analfabeti digitali ultracinquantacinquenni.

La transizione ecologica – o

verde – è la grande utopia del

nostro tempo. Come altre,

passate utopie, anche quella

ecologica nasce da esperienze,

calcoli, visioni che proiettano

sul futuro, moltiplicandole,

le preoccupazioni di oggi. A

differenza di quelle del passato

però l’utopia ecologica non

vive di attese millenaristiche

e di inverificabili palingenesi,

ma della tensione tra necessità

e riforma, tra l’utopia necessaria

e le riforme possibili.

La sua necessità nasce dalla conoscenza – documentata e prevedibile – dei cambiamenti climatici prodotti dall’incontrollato sfruttamento umano delle risorse naturali e dalla catena di conseguenze che ha comportato e comporta.

Seppur confusamente questa conoscenza induce alla responsabilità e la responsabilità obbliga a intervenire con le riforme possibili del nostro modo di produrre, di abitare, di alimentarci, di comportarci e di vivere.

La pandemia del Covid-19 che in questo 2020 ha già mietuto centinaia di migliaia di vittime ha messo in ginocchio (quale più, quale meno secondo la capacità mostrata dalle diverse leadership e la qualità dei sistemi sociali) l’economia produttiva di gran parte del mondo.

Affermare che la causa originaria risieda nella globalizzazione sembra più che un’inferenza azzardata, una superstizione nutrita di un arcaico, invincibile senso di colpa per la superbia umana che avrebbe osato dominare la natura infrangendo o spostando i confini e i limiti del possibile.

Tutto al contrario, io penso che alla volontà prometeica di usare il fuoco per difenderci, vada attribuita non l’origine del virus ma la capacità dei sistemi sanitari che abbiamo creato di proteggerci, di reagire e di debellarlo quanto prima possibile e persino di imparare a convivere con questo hospes hostis, questo ospite nemico. Chi ne dubitasse dovrebbe rileggere la storia delle passate epidemie – dalle pestilenze del ‘600 alla spagnola del ‘900 – che produssero ben altre ecatombi che dilagarono nell’ignoranza scientifica e nell’impotenza sanitaria.

Ultrapotenti ma sempre inadeguate scienze e tecnologie restano pur sempre le nostre migliori creature e alleate, strumenti e fini del vivere umano e del progresso sociale. Nondimeno non bisogna dimenticare mai che anche le scienze sono figlie delle società che esse orientano e guidano.

Dunque, anch’esse non vanno trattate come oracoli, pizie solitarie che emettono vaticini infallibili. La loro ricerca e la loro azione dev’essere continuamente aggiornata e verificata in un più ampio circuito di conoscenze e di dibattito pubblico, aperto, responsabile e partecipato.

«L’aggravarsi della crisi ambientale è sempre più tangibile, lo documentano i numeri, di giorni di siccità, di metri di scioglimento dei ghiacciai o di millimetri di innalzamento del livello del mare, gli indici di inquinamento atmosferico» (O. Bouin).

La crisi ambientale ci minaccia ben oltre quella sanitaria e non solo per la sua ampiezza incommensurabile, ma per la sua incombente irreversibilità. Oltre la soglia che stiamo lambendo non ci saranno vaccini né farmaci a salvare l’umanità.

Troppi anziani non lo sanno, molti adulti in posizione di responsabilità lo negano o non se ne curano. Non stupisce che a nutrire la speranza e a intraprendere la lotta sia stata un’adolescente. Mai poetica profezia fu più lungimirante di quella di Elsa Morante: « Il mondo sarà salvato dai ragazzini».