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Nei primi tre numeri – di maggio, di giugno e di luglio – abbiamo sottotitolato l’Avanti! come Voce del socialismo liberale, del socialismo repubblicano, del socialismo tricolore. Il prossimo numero di settembre presente in un numero sempre crescente di edicole, di Circoli dell’Avanti! di case degli abbonati si intitola al socialismo riformista.

Ciascuna definizione ha fondamento nella nostra lunga tradizione, nessuna da sola può pretendere da sola di rappresentare l’intera storia, viceversa tutte insieme cominciano a ricomporre e ad aggiornare lo straordinario mosaico di ideali e di realizzazioni, di lotte politiche, sociali e culturali del socialismo italiano.

Nel suo incomprimibile pluralismo c’è tanto il segreto della vitalità, della libertà e della durata del socialismo – ben oltre le fasi critiche, le lacerazioni, le scissioni e persino oltre lo schianto degli anni venti e quello degli anni novanta che ancora ci tormenta – quanto la prova, l’evidenza di una debolezza. Di quale debolezza si stratta?

Se guardiamo agli uomini e alle donne che lungo tante generazioni e in tempi sempre burrascosi, l’hanno formato e guidato, dunque a Filippo Turati, a Pietro Nenni, a Bettino Craxi e accanto, non inferiori a loro, a Camillo Prampolini, a Sandro Pertini, a Carlo Rosselli, a Giuseppe Saragat (e potremmo citarne altri dieci, venti, trenta …) anche solo evocarne la debolezza appare più che ingiusto, quasi ingiurioso.

Dovremo allora cercare la spiegazione in una debolezza di pensiero, di strutture, di organizzazione? O, ancora, nel non risolto conflitto tra l’esuberante libertà dei singoli, il bene superiore del partito, quello supremo dei lavoratori per non dire di quello sacro della patria?

Forse non esiste una spiegazione unica, forse solo le ricostruzioni che più aderiscono alle diverse fasi storiche e dunque, più in profondità, a come i limiti, le contraddizioni e le debolezze dell’unificazione nazionale, della società e della cultura italiane si siano specchiate nel socialismo possono dare ragione insieme dello straordinario contributo del socialismo italiano e delle sue rovinose cadute nei frangenti più drammatici.

Nondimeno, se tra tante contingenze e peripezie dovessi dire qual è, se non la chiave che apre lo scrigno, quantomeno il filo logico, il motivo prevalente della storica debolezza socialista guarderei all’assenza di un limite e di una misura, dunque di un qualche freno alla dialettica, alla polemica, allo scontro interno.

Potremmo chiamarla una debolezza di metodo politico o anche evocare il ricorrente prevalere della passione sulla ragione; e per passione intendo non solo le pulsioni dell’ambizione personale ma anche quelle di gruppo di corrente, di interessi locali e regionali iscritte nelle vicende di un paese frammentato e ricco della civiltà di centro città che furono stati e la cui memoria non tramonta mai.

Ma parlare di metodo significa parlare di pensiero e il pensiero del socialismo italiano nacque, di fatto, nell’estremo localismo della pianura padana con scarsi addentellati nel centro e nel sud Italia, ma nacque – e questa è la sua ambiguità originaria – aderendo all’internazionalismo cioè alla forma più moderna di universalismo.

Localistico nelle radici, universalista nelle aspirazioni: così si formò il socialismo italiano delle origini. L’universalismo proletario rifletteva quella che era allora la condizione umana della stragrande maggioranza degli abitanti della terra – tutti coloro che non possedevano altra ricchezza che la propria prole, i propri figli.

I profeti del socialismo – Fourier, Blanc, Owen, Proudhon, Lassale – lo declinavano ciascuno a suo modo, ma tutti concordavano sul fatto che il socialismo doveva essere internazionale cioè unitario tra le nazioni e oltre le nazioni perché ispirato dalla solidarietà di classe, nuova veste della fratellanza universale.

Solo nella dottrina di Marx l’universalismo della condizione proletaria si sposa con un altro universalismo, quello della scienza. A indicare la strada, a dettare alle organizzazioni operaie le loro ragioni, i modi dell’associazione, i fini della loro lotta non ci sono più solo aspirazioni ideali, sentimenti solidali, c’è la scienza: la sua scienza dell’economia. La critica marxiana dell’economia politica ha scoperto come il capitale sia frutto dell’appropriazione privata

del plus valore prodotto dai lavoratori, e questa verità scientifica, inconfutabile, assoluta, impone il passaggio dal socialismo utopistico, umanitario, solidaristico al socialismo scientifico, da lotte contingenti, spontanee, evenemenziali alla rivoluzione che abbatta il sistema capitalistico.

Ebbene, una scienza dell’economia e della società che si fa rivoluzione presenta – come intuì e ricostruì meglio di ogni altro studioso il nostro Luciano Pellicani – ripete il carattere essenziale della gnosi ovvero di quell’antica forma di conoscenza che assume la veste di rivelazione. Il marxismo proprio mentre vuole essere scienza contraddice il metodo delle vere scienze caratterizzato dalla loro fallibilità, dal loro procedere attraverso verifiche e dalla costante revisione dei loro postulati.

Poco importa che l’originario messianesimo di Marx ed Engels, quello del Manifesto comunista per intenderci, non sia quello cui attinsero i profeti del socialismo italiano collegati assai più che all’originale agli insegnamenti dell’ultimo Engels sempre più

influenzato dal revisionismo evoluzionista di stampo darwiniano.

Il marxismo, questo marxismo, trovò terreno fertile in Italia, paradossalmente attecchendo assai più da noi che nella natia Germania, a Milano più che a Berlino, nella Padania più che a Treviri.

Se nella pratica cioè nella concreta edificazione delle basi materiali e politiche del socialismo italiano l’esempio seguito fu quello revisionista e riformista nelle viscere e nelle menti rimase sempre viva la febbre messianica, il fuoco della speranza e dell’attesa rivoluzionaria. La prudenza turatiana affidata all’educazione e alla prassi riformista che accompagna e sfrutta l’evoluzione generale aprì “le vie maestre del socialismo”. In quel solco, dunque anche in quella persistente ambiguità – tra ideali rivoluzionari e prassi riformista – si incamminò tutto il PSI dei padri fondatori e dei loro seguaci. Essi compirono un’impresa senza precedenti

Vent’anni dopo una generazione impaziente, la gioventù rivoluzionaria socialista romperà l’attesa e romperà l’ambiguità. Unita nel volere volgere la guerra in rivoluzione quella generazione si dividerà dalle sue radici e dividerà se stessa. Una parte sceglierà l’estremo nazionalismo l’altra l’estremo internazionalismo, una fonderà il fascismo l‘altra il comunismo, l’una vorrà resuscitare l’antica Roma e il suo impero, l’altra crederà di vedere in Mosca la nuova Roma.